La morte dell’anziano “tocca” anche l’assistente familiare
Con la morte della persona assistita l’assistente familiare perde una persona che ha accudito a lungo, con cui ha stabilito spesso un’intensa relazione, e che ha accompagnato sino alla fine.
Facevo le notti al suo letto in ospedale, rientravo a riposarmi un po’ e poi tornavo di nuovo là. Ero stanca, tanto stanca. Quando sua figlia mi ha chiamato, mi ha detto «Svetlana… è morta». Ho pianto molto. Mi dicevano «Calmati, non piangere, è meglio così perché ora non soffre più». Al funerale ho detto «Non voglio più fare questo lavoro» e la figlia della signora «Perché? Era così pesante?» «No, signora, ma sono passati due anni e mezzo e le volevo bene». Poi ho letto sul giornale l’annuncio di morte «Un particolare ringraziamento a Svetlana che l’ha seguita con attenzione e affetto». (Amadei, 2005, p. 44)
Nella maggior parte delle culture dei Paesi d’origine delle assistenti familiari, sono ancora radicate tradizioni di condivisione del dolore da parte dell’intera comunità. La morte continua ad avere un senso: è un fatto naturale della vita indissolubilmente legato a una visione del mondo nel quale lo stesso invecchiamento non è una maledizione. In questi contesti si percepisce ancora, viva e vitale, un’elaborazione culturale della morte che certo non ne elimina la sofferenza, ma permette di inserirla in un quadro condiviso di significati, e con ciò di pensarla, viverla e affrontarla per quello che è: un momento certo nella vita dell’uomo, che entra nella morte così come è entrato nella vita.
“Moriva mia zia, io ero terrorizzata! Invece la badante, peruviana, si è spaventata meno. È incredibile: lei stava vivendo un doppio lutto: moriva la signora che stava assistendo e negli stessi giorni è morto suo fratello in Perù! Lei, non io, ha vegliato mia zia le notti prima del funerale! Mi ha solo chiesto se poteva venire a farle compagnia una sua cugina. Ecco lei aveva un’idea diversa della morte, più integrata nella vita, non come scandalo o separazione.”
Per l’assistente familiare, al dolore per la fine del rapporto con l’anziano assistito, si aggiunge anche la perdita della casa in cui ha abitato, quella «casa di altri», non sua, ma diventata per lungo tempo la propria dimora, l’unico tetto sulla testa.
Alla morte della persona assistita, finisce anche il rapporto di lavoro con l’assistente familiare. L’assistente familiare perde, quindi, non solo il rapporto affettivo stabilito con la persona assistita ma anche il posto di lavoro.
“Ricominciare da capo, ancora una volta! Quanto tempo passerà prima che trovi un altro posto? Ho bisogno di denaro subito, i soldi mi servono per far venire qui i miei figli! Adesso devo ricominciare tutto un’altra volta. Non ho voglia ma devo perché ho bisogno di lavorare! “
Il contratto di lavoro prevede che i giorni successivi alla morte del nostro familiare possano essere giorni che non vengono lavorati dall’assistente familiare, se non lo riteniamo utile e necessario, ma occorre comunque remunerarli: in tal caso l’assistente familiare lascia subito la casa, ma dobbiamo comunque pagarle le giornate di preavviso che le spettano.
Oltre a tener conto di ciò che prevede il contratto, cerchiamo anche di trovare un accordo funzionale ai nostri bisogni e a quelli di una persona in grande difficoltà. Perché, ad esempio, non farci aiutare a mettere ordine nella casa in quel periodo triste e pieno di cose da fare? Per entrambi può essere uno spazio/tempo simbolico di chiusura di un rapporto o di un certo tipo di rapporto, che si avvale di piccoli gesti, quali riordinare, sistemare, svolgere incombenze pratiche e organizzative necessarie, attraverso i quali iniziare a elaborare il dolore per la perdita. Possono essere giornate particolarmente faticose e impegnative non solo per noi: riconosciamo anche all’assistente familiare, che ha vissuto nella casa con il nostro caro, il tempo per riorganizzarsi.